venerdì 7 dicembre 2012

ma de che stamo apparlà?

mi è capitato ieri sera di vedere in tv le ricamatrici, un film francese del 2004 di eléonore faucher. a memoria mia, non mi pare di ricordare che abbia avuto una distribuzione proprio proprio capillare, nelle sale italiane, tant'è che su youtube non ne ho trovato nemmeno il trailer in italiano, ed è un vero peccato perché è un film godibilissimo, sottile eppure molto puntuale.


il critico di mymovies dice: Perché i francesi riescono a girare film che gli italiani non realizzerebbero nemmeno sotto tortura? e mi pare una domanda più che legittima, perché è da un bel pezzo che non si vede (io, almeno, ma ammetto che ultimamente sono un po' distratto) un film italiano del genere. se penso a qualcosa di vagamente (molto vagamente) simile, mi viene in mente anche libero va bene, il film d'esordio alla regia di kim rossi stuart, oppure cosa voglio di più di soldini. sì, lo so che non c'entrano un cazzo, la similitudine che cercavo stava nella collocazione sociale dei protagonisti delle storie raccontate e, con un po' di buona volontà, quasi quasi ci siamo. ma comunque sembra che i registi italiani si vergognino di raccontare le storie della cosiddetta gente comune, quella che fa un lavoro qualsiasi o che magari un lavoro non ce l'ha proprio, ma non per questo è così arida da non avere sentimenti degni di essere raccontati. magari, se non ha un'istruzione adeguata, non riuscirà a trovare le parole per descrivere i propri stati d'animo, ma ciò non significa che non ne abbia - ed è qui che servono le immagini (vedi, amore mio, il post di tazio sulla comunicazione), e bravi attori che sappiano interpretare contemporaneamente uno stato d'animo e l'impossibilità di comunicarlo all'esterno.

le ricamatrici racconta quella che guccini chiamava una piccola storia ignobile: una ragazza di campagna, commessa di supermercato, rimane incinta del suo amante occasionale, se ne accorge quando è troppo tardi per abortire, non sa che fare del bambino e cerca di tenere nascosta la gravidanza alla famiglia e in genere a chi non le è amico. trova comprensione e albergo presso una donna che la dà da lavorare come ricamatrice, a cui è morto il figlio. entrambe trovano nel loro rapporto una motivazione sufficiente per riprendere il filo della speranza. già negli anni '70 una storia del genere non valeva due colonne su un giornale, come appuntava il sunnominato, figuriamoci se oggi potrebbe valere un film. per la faucher, sì; per i registi italiani invece, a quanto pare, serve sempre, comunque, qualcosa di estremo: come minimo la ragazza deve essere bipolare, o deve essere stata stuprata, o il padre è affiliato alla camorra degli scissionisti, o la madre di lei muore travolta da un'auto guidata da un imprenditore ubriaco che però addossa la colpa al solito extracomunitario e il padre, distrutto dal dal dolore, sperpera tutto il patrimonio in videopoker, prima di essere redento da una prostituta ex tossica la quale, però, si scoprirà, era nata da una relazione del padre della moglie morta (in sostanza, del suocero di lui) con una ballerina e quindi in sostanza sta con la sorellastra della moglie morta... fermi un attimo. dove eravamo? a una ragazza incinta e ai suoi problemi. che son semplici, se visti nell'ottica delle dinamiche tra stato e stato, ma per lei sono enormi, e se li deve smazzare perlopiù da sola.

il cinema italiano è scollato dalla gente comune, non riesce a raccontarla, non la conosce, probabilmente se ne vergogna un po'. se racconta la storia di qualche sfigato, è per raccontarne i tentativi di riscatto e sicuramente lo sfigato sogna in grande ma, sotto sotto, il regista gode nel raccontarne i fallimenti. o lo riduce a macchietta, tipo scialla. eppure, il neorealismo lo abbiamo inventato noi nel dopoguerra, per contrasto con un cinema di maniera che raccontava solo le liete storie delle élites, il famoso cinema dei telefoni bianchi. il regime fascista negava dolosamente l'esistenza di problemi di qualsivoglia natura tra la popolazione, e siccome il cinema era un grande strumento di propaganda, nessun film che parlasse di disoccupazione, di fame, di povertà sarebbe stato tollerato. oggi mi pare di assistere a una nuova forma di elitismo, quello della complessità: se una storia non è sufficientemente complessa, nella trama o nell'impalcatura psicologica dei personaggi e delle loro interazioni, un regista italiano non è interessato a raccontarla. eppure, a quanto pare, è possibile raccontare di sentimenti senza diventare sentimentali, di parlare di gente comune trattando con rispetto loro e i loro piccoli, quotidiani problemi.

come al solito, in tanti si riempiono la bocca con laggente, ma cosa faccia davvero e soprattutto cosa pensi questa ggente, ormai non interessa più a nessuno, se non quando deve andare a votare o a comprare.

finiamo con una canzone che sta brevemente nella colonna sonora del film e che hanno malamente tagliato, ieri sera, insieme ai titoli di coda. anche quella parla di cose semplici.


1 commento:

  1. Ma pensa: ignoravo che questo pezzo fosse nella colonna sonora di quel film, ma adoro i Louse Attaque e questo pezzo, l'avevo cigtato nel post "E io ridevo" di qualche settimana fa!
    Ciò detto (l'ascolto in sottofondo mentre ti commento), concordo con te: qui sempre cose estreme, o lagnatio impressionanti di famiglie borghesi che si cornificano. Niente storie semplici, brillanti, straordinarie come lo siamo noi 'gente comune'. Anche il cinema scollato dalla realtà, come la politica, come i media, ecc.

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