come ha detto qualcuno da qualche parte, l'arte serve a
porre domande, non a dare risposte; in questo senso, la grande bellezza è
sicuramente un film d'arte perché, da quando siamo usciti dal cinema e fino al
giorno dopo, simonetta ed io non abbiamo fatto che cercar di dare le risposte a
tutti gli interrogativi con cui siamo rimasti al termine della visione.
la prima impressione è stata che sorrentino si sia proposto
da solo una quindicina di tracce di temi da svolgere, con solo due ore di tempo
per farlo: tanti gli argomenti, gli spunti, le suggestioni, ma niente che
arrivi mai a compimento: personaggi la cui personalità rimane appena abbozzata,
episodi che godono di ampia sottolineatura e che rimangono invece avulsi dal
resto della storia (quale storia?), inizi che non trovano mai svolgimento,
tanto meno fine.
molti i richiami a fellini, ma più come citazione accademica
(la giraffa!) che come similitudine di atteggiamento: fellini contemplava la
stessa roma cafona di sorrentino, cinquant'anni prima, ma con occhio più
ammirato e meno smaliziato. in fin dei conti, fellini poteva dire che la dolce
vita l'aveva solo descritta, mentre ho l'impressione che sorrentino ne sia
(stato) più coinvolto - e fellini ha sempre conservato un atteggiamento
provinciale, nel senso di non-mondano, nel guardare le cose del mondo.
del resto, roma ha sempre costituito un miraggio per
chiunque provenisse da fuori: possiede il fascino della metropoli, della città
dove succede sempre qualcosa - e chissà cosa succederà mai, a roma, che non
possa succedere anche in provincia? forse solo le stesse cose, ma su scala
metropolitana, appunto. il protagonista del film, jep gambardella (il solito,
enorme toni servillo) non sfugge a questo equivoco, e giunge a roma animato
dall'ambizioso intento di diventarne protagonista, salvo invece trovarsi ad
esserne fagocitato.
lo troviamo quarant'anni dopo il suo arrivo in città,
sessantacinquenne, nel giorno del suo compleanno, al centro di una festa
triviale e sguaiata, attorniato da esempi di disfacimento, più che di
decadenza: su tutti, una serena grandi che accetta di fare la parodia di se
stessa (ma un po' tutto il film è un continuo entrare e uscire dai personaggi:
la ferilli che non si arrende al tempo che passa e a 42 anni (tte piacess'!!)
fa ancora la spogliarellista, antonello venditti nel ruolo di se stesso...),
smisuratamente ingrassata e devastata dalla chirurgia (in)estetica, addirittura
colta nell'atto di farsi un paio di strisce, reato per cui rischiò anche la
galera (fu prosciolta). mondano in maniera riluttante, ma solo in apparenza: in
realtà ben cosciente della propria e della altrui inconsistenza e incapacità di
incidere sul mondo reale, che appare talmente distante dall'alta borghesia
intellettual-radical chic qui rappresentata da non comparire affatto, nemmeno
inquadrato per sbaglio. forse scosso da alcune morti che gli avvengono vicinissime,
senza peraltro sfiorarlo, comincia a porsi domande sul senso della vita e della
sua esistenza in particolare, a cui non sa rispondere da solo e nemmeno trova
modelli convincenti a cui domandare, finché non incontra la suora missionaria
104enne (la santa) che dorme per terra e mangia solo radici, che aveva
apprezzato il libro (unico) di esordio di gambardella e che gli domanda per
quale motivo non avesse più scritto altro, nonostante l'inizio sfolgorante. jep
risponde di aver sempre cercato la grande bellezza, ma di non averla mai
trovata; la suora replica con una frase a effetto che, a quanto pare, qualche
effetto lo sortisce e gambardella (ri)parte per un viaggio alla ricerca del sé,
se non del tempo, perduto.
la parola più ricorrente nei dialoghi del film è delusione,
con i suoi derivati deluso, deludente, e non credo sia un caso; è deluso di se
stesso gambardella, che era nato per - anzi, condannato a - la sensibilità,
come dice di se stesso all'inizio del film, ma si ritrova, decenni dopo, insoddisfatto
e inaridito, per aver scambiato le sue potenzialità di scrittore con il piatto
di lenticchie della mondanità; è deluso romano, il personaggio di carlo
verdone, perché forse sperava di veder amplificate nella grande città le sue
(scarse) potenzialità di autore, potendo raggiungere un pubblico più ampio e
forse meno superficiale, ma deve arrendersi all'evidenza che amplificare la
mediocrità significa solo rendere più rumoroso il proprio fallimento, eccetera.
ma sono deludenti alcuni stessi elementi del film: ramona, il personaggio di
sabrina ferilli, che come sempre non sa parlare romano - ma in questo caso
sorge il dubbio che il perfido sorrentino lo sappia bene e ne approfitti per i
suoi scopi - e che sembra affacciarsi alla trama del film per diventare
salvifico, con la sua apparente, ingenua purezza, risulta in realtà di spessore
pressoché nullo e nemmeno la morte gli conferisce dignità; il consolabile
vedovo della ragazza, poi donna, che in realtà per tutta la vita ha amato solo
gambardella, va ad informare il medesimo della morte di lei e di questa sua
ossessione: lo ha letto nel diario di lei, che forse potrebbe contenere qualche
risposta, ma lo stolto lo ha distrutto, e nonostante avesse dichiarato, in
gramaglie, che avrebbe vissuto nell'adorazione eterna dell'amata che non lo
corrispondeva, in realtà ben presto cerca di rifarsi una vita (qualsiasi) con
una donna dell'est molto più giovane di lui (e qui il cliché è consentito); la
frase della suora 104enne: lo sa perché mangio radici? perché le radici sono
importanti è forse la frase più banalmente retorica che si poteva mettere in
bocca a un qualsiasi personaggio: in bocca a quello che dovrebbe suggerire al
protagonista una svolta verso un recupero etico, fa semplicemente cadere le
braccia; la stessa "svolta" non sta in piedi e non ha alcun senso
reale: cosa spera di trovare gambardella tra le pietre del suo paesello di
origine che non si porti già dentro di sé? se hai smarrito il senso della
grande bellezza che dici di non aver mai trovato, è perché non l'hai cercata;
ma perfino la recitazione di alcuni, compreso lo splendido protagonista, sembra
perdere smalto via via che il film procede. e man mano che analizzavamo insieme
tutti questi elementi del film, cercandone il possibile senso, mi sono sempre
di più convinto che tutto questo non fosse casuale.
io credo, penso, spero, auspico che sorrentino abbia fatto
un film deliberatamente deludente: che abbia impiantato questa enorme
messinscena non per dare un suo punto di vista moralista e moralizzatore
rispetto a uno stile di vita vacuo, che peraltro da sempre si autocondanna, ma
per dare modo a ciascuno (che ne sia in grado) di riflettere su se stesso e
sulla propria esistenza, in modo da accorgersi della bellezza che ci si trova
davanti agli occhi - magari cambiando semplicemente punto di vista. e d'altra
parte, la prima chiave di lettura sorrentino ce la fornisce all'inizio del
film, con la citazione di céline che viene mostrata in apertura: viaggiare è
molto utile, fa lavorare l'immaginazione, il resto è solo delusioni
(guardacaso) e pene. il nostro viaggio è interamente immaginario, è là la sua
forza. come anche dire che se perdi immaginazione, perdi forza. la giraffa è
palesemente finta, realizzata in cgi: ma d'altra parte è un trucco e non è mai stata
lì - ma basta esserne consapevoli per ribaltare la prospettiva: il trucco, il
tranello, non è la sparizione della giraffa, ma credere che la giraffa esista.
un'altra chiave di lettura, a mio parere, è il personaggio del custode delle
chiavi dei più bei palazzi romani, dove la bellezza viene disvelata in tutto il
suo splendore, senza infingimenti né orpelli: quando ramona gli chiede:
"come mai hai tutte queste chiavi?" lui risponde: "perché sono
un tipo affidabile". come dire che la vera bellezza va affidata solo alle
mani di chi la sappia rispettare e conservare.