martedì 3 febbraio 2009

i neri hanno il ritmo nel sangue

sarà una banalità e senz'altro un luogo comune, ma basta ascoltare in che modo un bianco e un nero trattano la stessa musica, e te ne rendi conto. e in ogni caso, difficilmente un bianco prenderà il ritmo come perno centrale della sua ricerca musicale; quando lo fanno, però, sbancano. esempi? stewart copeland: i police erano opera sua, e non si può dire che facessero della melodia una loro caratteristica spiccata. vero che c'era sting a cantare e che, vista la sua carriera postuma, non si può dire che non sia una bella testa di crooner, ma se qualcosa dei police rimane, è il loro atteggiamento di fusione di ritmi funky e reggae, non certo every breath you take.

oppure paul simon. ha scritto tutto lo scrivibile in termini di melodie chewing gum, quelle che ti si appiccicano addosso e non se ne vanno più (per fortuna), poi ha scoperto i musicisti africani, e il loro modo di trattare qualsiasi strumento come se fosse un tamburo lo ha stregato. ne son venute fuori perle come graceland e the rhythm of the saints.

o quello che ascoltavo l'altro ieri: david byrne, con e senza i suoi talking heads. si è dimenato un po' tra canzoncine e new wave, poi, grazie all'incontro con brian eno (sempre lui), gli si è aperto il cervello e la sua visione ha cominciato a contemplare intrecci ritmici che fino ad allora aveva soltanto intuito. ascoltare, tanto per dirne una, come si apre fear of music, il disco dei talking heads del 1979: i zimbra è un pezzo completamente percussivo, non c'è melodia se non alcune cellule ripetitive, e qualsiasi strumento, voce compresa, viene usato in maniera percussiva, creando ritmi che si intrecciano l'uno con l'altro, fino a formare una trama così fitta da permettere di perdercisi dentro. il testo stesso si preoccupa più di riprodurre suoni e accenti là dove vanno, piuttosto che di esprimere un concetto finito, tant'è che non credo si tratti di parole in alcuna delle lingue conosciute.

da lì in avanti, è stata una vera e propria orgia ritmica, che ha avuto il culmine con l'ingresso nel gruppo di adrian belew, uno che usa la chitarra come un'accetta, ma con la grazia di un ballerino: suoni indistinti, urla, strepiti, magari bastonate sulle tempie, ma melodie, mai. chi riesce ad ascoltare stop making sense senza ballare, o è tetraplegico o è sordo.

sciolti i talking heads, byrne ha scoperto la musica latina, direttamente sul posto. uh oh e rei momo non sono solo raccolte di ritmi sudamericani, sono un omaggio, un tributo alle culture che hanno prodotto quei ritmi. stupisce che uno come lui, gay, esteta, innamorato del ritmo, non sia definitivamente rimasto a cuba o dintorni.

in fondo, che ci sarà mai, a new york?

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